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La prigionia, in terra straniera, dei due Marò italiani.

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Di Andrea Atzori.

 

Sul tragico destino  dei due Marò italiani, prigionieri da due anni nelle mani delle autorità indiane, si sono scritti fiumi di inchiostro. I media italiani hanno prodotto e diffuso un’infinità di servizi informativi e sono stati pubblicati sull’argomento, miriadi di articoli documentati da opinionisti più o meno autorevoli.

 

 

 

Ma la sensazione più diffusa, nonostante la vicenda si protragga da così tanto tempo ed ancora sia lontana da una soluzione vera, è che il mistero regni ancora sovrano su di essa; un mistero fitto come un muro di gomma, come lo è per tutti i misteri italiani, specie se ad esservi implicata, in prima persona, sia la politica. Un mistero che dura fin dall’inizio di questa tristissima ed incredibile storia, forse unica  nel passato pur lungo e prestigioso della marineria, civile e militare,  italiana.

 

Una tradizione degna di ogni rispetto, in cui, grandi e numerosi, sono stati gli  eventi storici che hanno esaltato figure ormai mitiche di uomini e di repubbliche marinare che hanno reso illustre il nome del nostro paese. Basti ricordare la battaglia di Lepanto del 1571, combattuta e vinta dalla Repubblica di Venezia contro l’impero Ottomano e  Cristoforo Colombo (1451-1506) scopritore delle Americhe, il cui  nome deriva da Amerigo Vespucci, (1454-1512) altro grandissimo navigatore italiano.

 

Eppure, a fare letteralmente naufragio in questa oscura vicenda che arroventa i rapporti tra i due Stati, Italia ed India, pare sia proprio l’onorabilità delle istituzioni civili, militari e, soprattutto, politiche del nostro Stato. In tanti , ottimi analisti di fatti internazionali, hanno tentato di dare risposte plausibili, alle domande che si pongono spontanee nell’assistere impotenti, all’evolversi sempre più strano ed inspiegabile di questi eventi legati alla prigionia in terra straniera  dei due militari italiani. Senza, purtuttavia, trovarle in modo definitivo, anche se, ad onore del vero, sono assai forti le impressioni che si tratti di qualcosa di inconfessabile e che ci sia sotto qualcosa di poco edificante per il popolo e per la nazione intera.

 

E’ la prima volta  che mi risolvo a scrivere di questa strana e terribile storia, proprio a causa del fatto che ho, da subito fiutato il marcio che vi stava dentro. Di sicuro sappiamo solo che il piccolo drappello di Marò italiani era stato mandato a bordo della petroliera italiana Enrica Lexie come scorta a fini di difesa e protezione, nell’ambito di un trattato internazionale teso a contrastare il fenomeno della pirateria a danno di navi internazionali, in acque adiacenti le coste dei continenti africani ed asiatici. Il fenomeno di arrembaggio e sequestro delle navi cargo, da parte di criminali organizzati a bordo di piccole imbarcazioni, per lo più motoscafi, si ripeteva da anni ed era ormai arrivato a livelli di tolleranza impossibili.

 

Oltre alle perdite di grandi navi e merci costosissime, quelle in vite umane erano ancora più dolorose. Interi equipaggi sequestrati e tenuti prigionieri per anni, di cui si sono perdute persino le tracce e di cui solo pochi sono riusciti a salvarsi. Trattandosi di un problema di carattere internazionale, è stato  affrontato a livello internazionale sia europeo che globale,  attraverso accordi e trattati a cui anche l’Italia ha aderito e partecipato. Nell’ambito di queste norme decise  dagli Stati aderenti, avallate anche dall’ONU, il ministro della difesa italiano decise l’impiego dei militari a difesa delle navi cargo italiane operanti in bracci di mare a rischio di assalti da parte di pirati. In questo contesto si innesta l’odissea tragica dei due marò italiani, Massimiliano La Torre e Salvatore Girone.

 

Il 15 febbraio del 2012, in pieno oceano indiano, in acque internazionali, al largo delle coste  dello Stato indiano del Kerala, la petroliera Enrica Lexie era in viaggio da Galle in SRI LANKA a GIBUTI. Aveva a bordo 34 uomini di equipaggio, ufficiali, sottufficiali e marinai di cui 19 indiani, e 6 fucilieri di marina del 2° reggimento San Marco della marina militare italiana. In piena zona a rischio di attacchi da parte di pirati, la nave battente bandiera italiana veniva avvicinata da un natante, che, nonostante le segnalazioni luminose emesse, dirette ad ottenere la sua identificazione, attraverso un codice appositamente usato e riconosciuto a livello internazionale  a questo scopo, non intendeva invertire la rotta.

 

I marinai italiani posti a protezione della nave, si allarmarono in seguito alla scoperta, con l'uso di binocoli in dotazione, della presenza di uomini armati a bordo del piccolo natante. Accertata, senza ombra di dubbio, l’intenzione di attaccare la nave da parte degli sconosciuti, vennero sparati alcuni colpi di avvertimento dalla nave italiana, al fine di far recedere costoro dal disegno criminale di cui si stavano rendendo autori. Questa reazione indusse i malintenzionati a desistere, consentendo al cargo italiano di continuare lungo la sua rotta. Ma le vicissitudini, come sappiamo, per la Enrica Lexie, non erano finite. Anzi, erano appena incominciate.

 

La Guardia costiera indiana, comunicava all’equipaggio italiano di avere fermato le imbarcazioni coinvolte nell’assalto alla nave, per cui si chiedeva a costoro di entrare nel porto indiano al fine di procedere alle operazioni di riconoscimento dei pirati. Il comandante della nave italiana si metteva subito in comunicazione con l’armatore della nave e con le autorità militari da cui dipendeva la missione dei Marò a bordo della Lexie.

 

Il primo errore irreparabile commesso dagli italiani, è stato questo, del consenso prestato dall’armatore e dalle autorità militari, all’ingresso della nave nelle acque territoriali indiane ed  all’ormeggio nel porto indiano di Kochi. Un’ingenuità pagata a caro prezzo, per ignoranza delle motivazioni di fondo che stanno alla base del fenomeno della pirateria nelle acque prospicienti le coste di questi Stati ancora barbari ed incivilizzati, nonostante assurti ad un livello di evoluzione economica e tecnologica pari se non superiore a quella degli stessi occidentali.

 

La prima legge da conoscere da parte dei naviganti internazionali che solchino i mari degli oceani antistanti le coste di questi Stati, tra cui in primo luogo l’India, è che costoro non riconoscono il valore di alcuna legge o trattato internazionale, ma solo quella della forza militare di cui ciascuno dispone. E’ già in corso una guerra, ancora non guerreggiata, persino con l’esercito degli Stati uniti, con riguardo al controllo del flusso di navigazione a scopo commerciale,  lungo quelle rotte oceaniche.

 

Non solo l’India, ma persino la Cina non accettano di rispettare la libertà di navigazione neppure nelle acque sicuramente internazionali, oltre le 30 miglia marine dalla costa, fuori, cioè, dalle acque territoriali. Il fenomeno della pirateria è strettamente ricollegabile e preordinato a questo scopo.  Dissuadere la navigazione di carghi stranieri, nelle rotte marine oceaniche in cui, ad nutum, essi considerano di essere i soli utenti autorizzati in base ad una loro espressione di volontà unilaterale. E’ solo imposizione ed  affermazione di forza brutta in cui le regole giuridiche ed i trattati internazionali non rivestono alcun valore.E’ ormai provato che questi Stati emergenti non riconoscono alcun valore al diritto internazionale. Prova ne sia il fatto che un caso analogo di incidente in cui perirono pirati impegnati contro una nave battente bandiera USA, non sortì alcun effetto, proprio per rispetto, non delle leggi, ma della potenza militare statunitense.  Il caso non ebbe ulteriori strascichi oltre le formali proteste del governo indiano. Si guardarono bene, in quella occasione,  dal procedere al sequestro della nave americana.

 

Il punto di vista da cui inquadrare l’evento della prigionia dei due marò, è quello del sequestro di persona. Ma un conto è liberare un ostaggio dalle grinfie di un gruppo di terroristi, un altro, ben diverso è quello di strapparlo da quelle di uno Stato terrorista. In particolare quando trattasi di uno Stato forte militarmente, come questo indiano dei nostri giorni.  Un altro errore commesso dal nostro apparato politico è stato quello di avere, fino ad oggi, impostato lo scontro con l'India solo attraverso la diplomazia. Il governo venne informato della situazione di crisi in atto, dopo il dirottamento della nave in territorio indiano. Dopo una settimana essa potè riprendere il suo viaggio, lasciandosi alle spalle i due militari. Segno che alle autorità indiane interessava esclusivamente, piegare al suo volere il governo italiano, da cui si esigeva sottomissione e riconoscimento dello stato di impotenza. L'India cercava lo scontro allo scopo principale di dimostrare la sua superiorità sul piano bellico. La legge del più forte applicata ai rapporti internazionali. Una contesa cercata e costruita allo scopo di affermare la propria superiorità sul terreno militare. Una sfida che l'Italia non ha voluto nè potuto raccogliere, appunto perchè non si è sentita in grado di affrontarla. Ha cercato sempre ed esclusivamente, una solidarietà internazionale che non è mai arrivata. Infatti, si tratta di una Nazione in cui l'esercito regolare di cui dispone è in funzione esclusiva dell'alleanze militare di cui fa parte. Strutturato e concepito per la partecipazione alle missioni internazionali a cui veniva obbligata, per gli interessi degli altri membri Nato, in particolare gli USA, c.d. missioni di pace. Questa circostanza di una sfida personale, direttamente rivolta contro di essa, non era mai stata presa in considerazione, anche per la convinzione che i suoi alleati sarebbero subito arrivati in soccorso. Invece, non è stato così. La fragilità militare italiana è qualcosa di spaventoso. Dovrebbe incutere terrore ai suoi cittadini.

 

Le accuse ai due Marò vennero formalizzate solo dopo che questi erano ormai in mano alle autorità indiane. Un motopeschereccio, il St. Antony, sarebbe salpato dal porto indiano di Neendakara, nello Stato del Kerala, con 11 uomini a bordo, per la pesca del tonno, il mattino del 15 febbraio 2012 e quando rientrò avrebbe avuto a bordo il cadavere di due dei suoi pescatori. L’unità di crisi della Farnesina venne allertata tardi, solo dopo che la guardia costiera indiana era già dentro alla nave e la polizia con uomini armati di tutto punto, l’aveva del tutto invasa. Il calvario dei due marò era appena iniziato.

 

Il governo tecnico Monti, insediato da poco, per risolvere i problemi della crisi economica in cui sprofondava il paese, rivelò tutti i suoi limiti nel gestire una crisi internazionale di enorme portata, che avrebbe legittimato, in altri tempi, le levate di scudi preliminari ad un’azione di guerra. Ma la pusillanimità e l’inettitudine di uomini abituati a stare in cattedre universitarie,  piuttosto che sui banchi dei governi, fece credere al paese intero, che l’unica strada percorribile fosse quella della trattativa diplomatica. Un tunnel senza sbocco piuttosto che una soluzione seria alla contesa diplomatica ormai divenuta una noiosa cantilena fine a se stessa.

 

L’invio del mediatore Staffan de Mistura è un’opzione che ha fallito su tutta la linea. Tanto che a due anni di detenzione dei Marò, costoro non conoscono ancora neppure le imputazioni formalizzate su cui verrà impostato tutto il processo penale, quando e se mai verrà celebrato. L’indecisione e la confusione in cui sprofonda tutta la classe politica italiana si è potuta apprezzare in occasione del rientro in patria dei Marò in permesso accordato dietro cauzione, per le elezioni politiche del febbraio 2013.

 

Dopo la dichiarazione del ministro degli esteri Terzi secondo cui i Marò non sarebbero rientrati in India, avendo l’Italia considerato illegittimo il loro arresto, in quanto il reato imputato era stato commesso in acque internazionali e, pertanto, in base ai trattati internazionali, la sola autorità rivestita del potere a giudicarli era quella di appartenenza, l’India procede al sequestro dell’ambasciatore italiano in India, contravvenendo al Trattato di Vienna in cui si stabilisce l’immunità dei rappresentanti diplomatici e l’inviolabilità delle relative sedi diplomatiche. A costui gli indiani ritirano il passaporto e ne limitano i movimenti, negandogli il rientro nel suo paese.

 

A prima vista appare  chiara tutta l’ingenuità dei rappresentanti politici italiani, dovuta quasi di certo, ad ignoranza di tanti meccanismi giuridici che solo chi abbia una preparazione specifica possiede. La nostra magistratura aveva già provveduto ad aprire un fascicolo penale a carico dei due  Marò per i fatti imputati loro dalla polizia di Kochi, cioè l’omicidio dei due pescatori. Avrebbe, pertanto, ben potuto emettere un provvedimento  di restrizione della loro libertà personale, finalizzata alle necessarie attività istruttorie dirette ad accertare le loro responsabilità personali in riferimento al reato loro contestato. Infatti, nel diritto processuale  penale italiano vige il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Per cui questa soluzione non avrebbe violato gli accordi intercorsi con l’India, relativamente alla promessa di rientro dei Marò.

 

Ciò di cui i membri del governo Monti non si sono mai resi conto è il fatto che il danno provocato all’Italia, con la smentita della precedente dichiarazione sul rifiuto del rientro dei Marò, è stato un danno incalcolabile provocato all’immagine dello Stato italiano, che si sarebbe potuto evitare solo se si avesse avuto il coraggio umano di ergersi contro l’ingiustizia a cui il nemico la voleva costringere. Ma uomini formati alla scuola dell’egoismo personale senza alcun senso del valore dello Stato e della collettività nazionale, non potevano certo sperare di avere tali e preziose capacità e prerogative morali.

 

Il ministro Terzi, poi costretto alle dimissioni, rivelò chiaramente, davanti alle telecamere di tutte le emittenti nazionali ed internazionali, che la decisione di non rompere definitivamente le relazioni diplomatiche  con l’India, venne presa in considerazione del fatto che le imprese italiane ivi residenti, godono di commesse molto importanti e vantaggiose economicamente. Insomma fece capire che furono pressioni degli imprenditori italiani in India a decidere per il dietrofront del governo italiano sulla decisione di non far rientrare i due marò in India. Altra considerazione assai pertinente al riguardo è stata quella del potere di ricatto delle autorità indiane relativamente al caso dello scandalo giudiziario sulle tangenti Finmeccanica pagate agli indiani per l’acquisto di armamenti quali elicotteri Agusta, ecc. Pare che anche l’abbandono dell’ammiraglio De Paola, ministro della difesa nel governo Monti, dei suoi Marò, non fosse senza un’assai plausibile motivazione, essendo stato egli nominato nel consiglio direttivo della Finmeccanica.

 

In tutta questa deludente storia, vengono a galla le inettitudini ed inattitudini di uomini di governo forgiati solo alla scuola dell’economia d’impresa privata, in cui lo Stato viene ridotto a strumento per gli interessi dell’imprenditoria sia a livello di politica interna che internazionale. Il fenomeno del feudalesimo moderno a cui stiamo assistendo, implica queste conseguenze terrificanti, della scomparsa progressiva della forma di Stato quale ereditata da un passato storico quale lo abbiamo conosciuto a partire dall’opera di ingegnosità istituzionale, intrapresa dal Re Sole, Luigi XIV°, il quale fu il primo a dettare principi normativi e leggi vere e proprie per la disciplina della sua pubblica amministrazione. Lo Stato moderno saluta la sua nascita, da questo crocevia fondamentale per l’evoluzione delle strutture amministrative occidentali, facendo terra bruciata di un mondo ormai definitivamente tramontato nella notte dei tempi.

 

Ebbene i nostri grandi statisti bocconiani ci stanno ri-scaraventando in quel torbido e caotico passato. Complimenti, meritate un grande applauso!  Eppure il paese,  aveva un grande asso nella manica, per evitarsi una tale fine ignominiosa. Ad azioni tanto azzardate come quella indiana ogni altra, anche piccola nazione, avrebbe reagito in modo assai razionale e scontato. Avrebbe cioè posto sotto sequestro, come contropartita, l’ambasciatore indiano in Italia.

 

Non solo, ma siamo un grande paese in cui migliaia di indiani vivono e prosperano con le loro famiglie,  senza che ancora si sia formata un vero e proprio senso di repulsione dovuto ad odio razziale nei confronti dello straniero. Insomma siamo una società improntata all’accoglienza. Finora almeno. Ebbene, questo cerchio magico si sarebbe potuto, anzi dovuto, spezzare. Se le aziende italiane in India dimostrano di possedere tutto il loro potere di pressione nei confronti del governo, fino a vanificare l’intero peso della funzione rappresentata dallo Stato nei confronti dell’intero suo popolo, è solo perché l’impresa ha sostituito il popolo nel concetto di collettività nazionale. Se l’impresa è al potere e, ciononostante, l’economia va a rotoli, tanto che si assiste ad un’ecatombe di imprenditori suicidi per i fallimenti inarrestabili a cui sono esposti, ebbene la colpa non è dello Stato né del suo apparato organizzativo, destinato anch’esso al fallimento più devastante, ma della politica e dei politici aggiogati al carro degli imprenditori senza scrupoli, espressione del potere occulto dell’antistato, vero virus fatale per la sopravvivenza della comunità nazionale.

 

Dopo la minaccia delle autorità indiane di condannare a morte i due Marò, il governo Letta, oggi dimissionario, ha reagito in un sussulto di orgoglio nazionale, con cui si è appellato alla solidarietà internazionale dei partner europei e delle organizzazioni internazionali come l’ONU. A far scattare la molla della ribellione alla prepotenza indiana, è stata la coscienza dell’effetto catastrofico che avrebbe avuto per l’Italia l’accusa di essere uno Stato terrorista implicita nella volontà espressa di ricorrere al Sua Act per formulare l’accusa contro i Marò. Insomma, la legge antiterrorismo indiana usata per accusare Massimiliano La Torre e Salvatore Girone, significava anche giudicare lo Stato italiano come terrorista.

 

La missione antiterrorismo dei due giovani militari italiani, svolta in adempimento alle disposizioni dei trattati internazionali, trasformata nel suo contrario. Da uno Stato che pratica la pirateria come strumento per estendere, anche oltre i confini del suo mare territoriale, fino agli estremi confini degli oceani in cui altra forza superiore non lo ostacoli e fermi. Al prossimo governo passerà la palla rovente della questione, che in tanti dei nostri cinici politici al governo, speravano potesse essere solo limitata alle due vite, per loro insignificanti, dei due figli di un’Italia ancora moralmente sana, che in tutta questa storia deludente, sono stati i soli ad avere dato prova di tutta la loro forza d’animo e di attaccamento ai valori della divisa.

 

Dentro ad una esperienza personale drammaticamente spaventosa, hanno sempre mantenuto fermamente fede al proprio senso di dignità, orgoglio e fierezza anche se la patria era lontana e li aveva abbandonati nelle mani del nemico. Comunque vadano le cose, nella speranza mai spenta di una soluzione positiva di questa terribile vicenda, essi sono già e rimarranno per sempre, due grandissimi eroi caduti nell’adempimento del loro dovere.

 

 

 


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